Storia

Giovanni Falcone 18 Maggio 1939 - 23 Maggio 1992

Giovanni Falcone 18 Maggio 1939 - 23 Maggio 1992

Per concludere il discorso intorno alla mafia non possiamo non passare per le vite di Falcone e Borsellino.

Conclusa la loro storia, infatti, si concluderà davvero e per sempre la lotta a Cosa Nostra.

Della sua vita prima della magistratura sappiamo che aveva provato la carriera nella marina militare, che la sua famiglia era di una destra quasi militante e che era cresciuto con un forte senso della giustizia.

Ebbe una prima moglie, da cui si separò, ed una seconda, che lo accompagnò fino alla fine.
Che finì con lui il passaggio per questa vita.

Nel 1964 vinse il concorso in magistratura e diede inizio alla sua vita da magistrato.

A Palermo cominciò con l'ufficio istruzione, dove conobbe Paolo Borsellino.

Qui la sua prima intuizione, legata ai movimenti bancari e patrimoniali. Seguendo i movimenti del denaro si potevano capire i movimenti delle cosche.

Per quanto difficili, questi anni, permisero a Falcone di sferrare duri colpi alla criminalità organizzata.

Il Maxi Processo e la collaborazione con Buscetta lo resero popolare ma lo esposero anche alla gogna mediatica.

Ricordate le parole che si scambiarono Buscetta e Falcone durante il loro primo incontro "da collaboratori"?

Buscetta disse a Falcone che prima o poi Cosa Nostra gli avrebbe presentato "il conto".

Cosa Nostra non presentò il 23 Maggio 1992 "il conto" al giudice falcone.

Quello fu solo il maledetto epilogo.

"Il conto" al Giudice Giovanni Falcone arrivò nel Settembre 1987 quando in sostituzione di Antonio Caponnetto, a capo dell'ufficio istruzione di Palermo, venne eletto Antonio Meli.

Antonio Meli rappresentava la fine dei progetti antimafia dei giudici Falcone e Borsellino.

Si rischiava di disperdere tutti i processi per mafia iniziati e seguiti da Giovanni Falcone.

Paolo Borsellino allertò il Consiglio Superiore della Magistratura e l'opinione pubblica a mezzo stampa.

Paolo Borsellino era così, mi piace immaginare che la sostanziale differenza tra lui e Falcone risiedesse in questa carica irruenta caratteristica di Paolo Borsellino.

La sua ricerca della verità era meno calcolata, meno ragionata.

Era forsennata.

Giovanni Brusca dichiarò che Cosa Nostra aveva provato ad avvicinare Borsellino, aveva tentato di corromperlo – senza successo ovviamente – disse che con lui avevano tentato perché aveva un'aria da vecchio siciliano, diversa da quella di Falcone.

Ecco la loro diversità era forse in questo. Ed in questo anche la loro compatibilità, la necessità di uno nell'altro per combattere la mafia.

Falcone nella sua meticolosità, nel suo rigore, nella sua metodicità. Falcone che decise di non avere figli, forse per preservarli da una vita fatta di scorta, attentati e paure.

Borsellino con i tre figli e l'adorata moglie accanto.

Borsellino ed il suo istinto puro.

Borsellino ed il suo impeto.

Così, anche contro la volontà di Falcone che pure gli riconoscerà un'amicizia di cui essere onorato, Borsellino si espose contro la nomina di Antonio Meli.

In un incontro pubblico dichiarò: "Se il pool deve morire lo deve fare sotto gli occhi di tutti".

Perché era questo il primo colpo che Cosa Nostra voleva restituire a Falcone: la fine del pool.

La fine dei reati per mafia collegati l'uno all'altro.

Il ritorno ai vecchi metodi. Prima del pentitismo, prima dell'associazione mafiosa, prima del Maxi Processo.

A Gennaio 1988 Meli si insedia all'ufficio istruzione.

A Luglio dello stesso anno il pool era sciolto.

Un mese dopo, di nuovo "il conto" del Giudice Falcone che si vide preferire Domenico Sica alla guida dell'alto commissariato per la lotta alla mafia.

Il 21 Giugno 1989 Cosa Nostra prova a chiuderlo "il conto" con il Giudice Falcone.

Falcone era nella sua villa al mare, all'Addaura.

Tra gli scogli sottostanti la sua abitazione vennero piazzati dai sicari di Totò Riina, latitante e con una condanna all'ergastolo sulla testa, cinquantotto candelotti di tritolo.

L'attentato non riuscì probabilmente a causa di un detonatore difettoso.

Anche in questo caso, imperversò la gogna mediatica.

Ancora. Di nuovo.

Addirittura qualcuno arrivò ad insinuare che Falcone poteva aver organizzato un falso attentato.

Da questo momento in poi Falcone venne isolato, da ex colleghi, dalla politica, dalla magistratura. Dalla città di Palermo.

La sua stessa gente, la gente per la cui libertà si batteva, si scagliò contro di lui.

La gente di Palermo si diceva stanca delle sirene della scorta, si diceva impaurita all'ipotesi che un attentato potesse essere sferrato contro i magistrati coinvolgendo anche "civili".

Perché i magistrati appartenevano ad un esercito forse?

Perché Palermo era in guerra forse?

Forse se ad un esercito appartenevano i giudici Falcone e Borsellino, era quello della giustizia.

Forse se ad un esercito appartenevano i palermitani che avrebbero voluto un ghetto per i magistrati a rischio di vita, sarebbe stato quello dell'omertà e, quindi, quello di Cosa Nostra.

Tutta la Palermo che voleva a distanza Falcone.

Tutta la Palermo che non voleva fare scudo al giudice Falcone.

Tutta la stampa che insinuava.

Tutta la politica che isolava.

Tutte le istituzioni che non offrivano protezione.

Tutta l'Italia che non si sentiva coinvolta.

Tutte queste persone erano Cosa Nostra.

Erano i camerieri che portavano "il conto" di Cosa Nostra a Giovanni Falcone.

Sentendosi ormai alle strette, impotente nella sua lotta contro la mafia, Falcone lasciò Palermo per Roma, dove lo attendeva la direzione della sezione Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia.

Era il 1990.

Il suo spostamento a Roma viene subissato di critiche.

Si dice che lasciasse il cuore della lotta per un posto più sicuro, meno esposto a possibili ritorsioni di Cosa Nostra.

Si disse che Falcone lasciasse nel cassetto dichiarazioni di mafiosi pentiti ed atti significati nella lotta alla criminalità organizzata.

Si disse che il giudice Falcone era diventato un magistrato per i media.

Falcone nell'ombra del suo ufficio capitolino continuò la lotta alla mafia.

Il 22 Maggio 1992, a Roma, ricevette la carica di Superprocuratore.

Il 23 Maggio a Capaci – Palermo – una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, venne azionata per telecomando da Giovanni Brusca.

Cinque quintali di tritolo che sventrarono il manto stradale, dilaniarono le automobili di Giovanni Falcone e della sua scorta.

Uccisero il Giudice, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Le dichiarazioni di Falcone poco prima della sua morte:

"Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

Falcone non era solo, c'era sua moglie con lui.

La sua scorta.

Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro

morirono con lui, eroicamente, come lui.

Nel tentativo di non farlo sentire solo.

Cosa Nostra non era sola.

C'erano i palermitani stanchi delle sirene.

Cerano i giornalisti che avevano insinuato la disonestà di Falcone.

C'erano i politici ed i colleghi che lo avevano isolato.

C'era tutta l'Italia che non si sentiva coinvolta.

Tutti insieme chiusero il conto che Falcone aveva aperto con Cosa Nostra il giorno in cui accettò di conoscere il codice attraverso il quale decifrarla.

Il giorno in cui accettò di "collaborare" con "Don Masino" Buscetta.

Il giorno in cui decise che non avrebbe avuto paura, che non avrebbe abbassato la testa alle logiche mafiose, il giorno in cui decise di "morire una volta sola".

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